“E’ successo tutto molto in fretta. Ero alla fine dell’ottavo mese di gravidanza. Sono stata intubata 5 giorni dopo il parto e dopo poco anche la piccolina è risultata positiva. Ma i medici mi hanno salvata e il pensiero delle mie due figlie che mi aspettavano mi ha dato la forza di rimettermi in piedi in tempi record”. Il peggio è alle spalle per Clara Castellucci, 39 anni, ma il trauma del suo ricovero per Covid-19 è ancora tutto da elaborare.
“Ora sto bene, ma la ferita è nel profondo. Ho contratto il coronavirus a fine marzo. Mio marito era andato a prendere mia mamma che usciva da una struttura di riabilitazione. Dopo 4 giorni, in famiglia avevamo tutti la febbre. Il 6 aprile sono andata a fare il tampone alla Clinica Mangiagalli di Milano, lasciando mia figlia di 5 anni e mio marito a casa. Ero alla fine della 37 settimana di gravidanza ma, mentre aspettavo il risultato, la mia bambina ha deciso che doveva nascere e mi si sono rotte le acque”. Con un cesareo di urgenza, febbre e polmonite allo stadio iniziale, il 7 aprile, in anticipo di
3 settimane, nasce Gaia (nome di fantasia). “Da un certo punto di vista è stato un bene, perché quello che è successo dopo non avrei potuto affrontarlo con lei in grembo. L’ho subito attaccata al seno e allattata, cosa a cui tenevo tantissimo. Ma avevo una carica virale molto alta e ho iniziato ad aggravarmi. Non respiravo quasi più”. Dalla tac risulta che l’infezione da Sars-Cov-2 ha provocato un’embolia polmonare. Clara riceve idrossiclorochina, cortisone, antibiotici, eparina, ossigeno. Quindi viene spostata al Policlinico di Milano perché la saturazione nel sangue continua a peggiorare. “Ormai non riuscivo più a comunicare con la mia famiglia, non potevo scrivere e leggere bene. Il rumore dell’ossigeno nel casco era come quello di una turbina”.
Il 12 aprile, giorno di Pasqua, le viene prestato il tablet del reparto per fare una videochiamata a casa. “Mia figlia grande aveva compiuto il giorno prima 6 anni, e non avevo potuto chiamarla perché era troppo stanca. Ci siamo finalmente rivisti, io, lei e mio marito, ripetendoci 100 volte che ci amavamo. Poi gli infermieri mi hanno detto: ti portiamo in terapia intensiva per farti respirare. Non sapevano se sarei tornata. Ho dormito attaccata ai macchinari per 12 giorni e mi sono svegliata il 25 aprile. Ricordo tutto quello che ho sognato mentre ero intubata”. Il marito di Clara nel frattempo è in quarantena e il neonatologo lo chiama tutti i giorni per aggiornarlo sulle condizioni di Gaia, che è risultata positiva al coronavirus ed è in terapia intensiva neonatale alla Mangiagalli. “Non sapremo mai se sono stata io a passarglielo, ma ho usato tutte le attenzioni possibili: Gaia non ha mai visto il mio sorriso, sempre coperto dalla mascherina, non ho mai toccato la sua pelle se non con i guanti. Ho pensato che a trasmetterlo possano esser state le lacrime che ho pianto. Ringrazierò per sempre le ostetriche che l’hanno coccolata in quel periodo. La piccola è uscita dall’ospedale il 24 aprile, lo stesso giorno in cui hanno iniziato a svegliarmi”. Una settimana dopo Clara è già in piedi e il 13 maggio torna dalla famiglia.
“Il Covid mi ha lasciato la pressione alta, un’enorme stanchezza e tanta sofferenza da rielaborare”. Da poco entrata nel gruppo Facebook ‘Noi che il Covid lo abbiamo sconfitto (ma ora combattiamo i suoi effetti collaterali)’, ha immediatamente condiviso la sua storia. “Tra gli ex pazienti c’è molto senso di solitudine e paura, per gli effetti che ancora abbiamo e per il ricordo dell’esperienza. Più posso
raccontare e più sono felice perché serve a dare consapevolezza agli altri e fa bene anche a me”.